La bulimia mediatica, dispensatrice quotidiana di una inesauribile quantità di adescamenti per il lettore generalista, nello stesso giorno in cui «La Repubblica» pubblicava un garbato elogio della politica – che grazie a un libro, L'Isola e le rose, azzerava una lontana, indomita diatriba tra D'Alema e Veltroni, il «Corriere» riproponeva un'altra disputa sulla "presenza-assenza", nel nostro corpo umano, nientemeno dell'anima. È così, mi è tornata in mente una querelle di Montanelli con un lettore al quale il giornalista, solforoso di suo, negava che la politica potesse «avere un'anima» in quanto estranea all'«esercizio sistematico della perfidia», cioè all'«odio vigilante», di cui è naturaliter impregnata.
Quando «l'Unità» ha pubblicato con un invitante rilievo la recensione di D'Alema, e Veltroni dirà agli amici di averne tratto un sentimento di gratitudine, quasi di commozione, l'anima della politica – in un tempo di «astri irritati», li chiamerebbe Manganelli – tornava ad albergare nel petto dei due «fratelli-coltelli», per dirla con la facilità in cui a volte si rifugiano le cose difficili. D'altronde, neppure la politica avrebbe potuto negare una metafora – cioè la costruzione di un'isola dedicata, a un'idea di pace, di armonia, e di bellezza – che dopo una guerra costata sessanta milioni di morti avesse rappresentato un'utopia innocente, redentiva.
Succedeva a Rimini nel 1968, quando era ancora, visibilmente, la "città martire" che si era presa addosso 397 bombardamenti, e con tutta quella calce rimescolata sembrava un ossario sterminato. L'isola che sorgeva dall'Adriatico – e oggi procede a tirature da bestseller – non pretendeva che l'immaginazione andasse al potere, né che per essere ragionevoli occorresse chiedere l'impossibile, come sullo sfondo predicava l'utopia, ma di riprendersi ciò che la guerra aveva massacrato. Un'immane tragedia aveva trovato, a Rimini, la rappresentazione di un'idea retorica: che tutti, in guerra, abbiano torto e ragione contemporaneamente. Di fronte alle colline che videro la "grande battaglia" del '44, per quattro ragazzi l'isola voleva dire, semplicemente, che tutto poteva essere o diventare diverso, e sarebbero bastati 400 metri quadri per indicare dove, come e perché. Avverto la possibile infondatezza di questa interpretazione; ma proprio la politica, a mio avviso, giustifica ampiamente quel senso di civile e benefica ragionevolezza indotta, inopinatamente, dalla vicenda della recensione.
D'Alema ricorda garbatamente a Veltroni che nel '68 aveva 13 anni, pur riconoscendogli di aver presto capito perché Mosca non sarebbe stata la Gerusalemme del proletariato, e oggi è altrettanto realista per comprendere come stia nascendo un dogma, questa volta economicistico e finanziario, che non giustificherebbe nessun serio annuncio di palingenesi generale, condivisa e stabile. Non a caso si vive con la sensazione di progredire camminando su qualcosa d'irreale, comunque di fragile; e non è affatto singolare che anche un libro apparentemente estraneo alle odierne durezze della realtà possa contribuire al risveglio di qualcosa di lasciato andare, e perduto. Veltroni, fellinianamente, mi è parso avere in mente il monito dell'isola affidandolo alle immagini finali del film E la nave va: con la zattera abbandonata – dopo l'invisibile attacco di una corazzata per annunciare la guerra – su cui è rimasto solo un attonito, spaesato rinoceronte! L'affondamento, nel film, non c'è, anche il canto degli esuli dalla loro terra è lontano, appena percettibile. Fellini, d'altronde, si rifiutò sempre di chiudere i suoi film con la parola "fine", perentoria e definitiva. La detestava, forse ne riceveva qualche maleficio. L'isola e le rose non vuole far posto all'unico simbolo sopravvissuto: la solitudine. Al contrario. Un rinoceronte, in mezzo all'Adriatico, non avrebbe incoraggiato nessuno, ma quei quattro ragazzi erano il dopo la tragedia. Tant'è che l'isola verrà risucchiata da un mare che aveva già visto svoltare, puntando su Rimini, gli aerei del 2 novembre del '43, il primo avviso della catastrofe, la città sconvolta, compreso il cimitero, i morti di prima confusi con i morti di quel giorno.
Di lì a due anni, tornerà la politica e ci troveremo in pace, dentro e fuori. Forse è un azzardo, e persino un arbitrio, prendere a prestito l'effetto allegorico dell'isola veltroniana per protrarlo fino ai giorni d'oggi, ma peggio sarebbe servirsene per cavarne sottesi, suggestivi, ambigui rimandi. L'isola venne dopo un terrorizzante conflitto mondiale e mentre una generosa ondata giovanilista, di proporzioni epocali, precedeva una temperie di inusitata violenza: oggi viviamo una crisi, prodotta anch'essa in Occidente, sulla quale però non si esercitano follie di regime, ma democrazie saldamente ancorate ai loro archetipi.
Veltroni, del resto, conosce il giudizio di Roland Barthes sulle rappresentazioni della realtà che generano ansia e potere, quando invece occorre confidare in una diffusa coesione sociale, lontana da ogni spericolato scenario usato per coltivare l'infondatezza e la rassegnazione, generando approssimazioni e scompigli.
Chi parla, oggi, di dover dare un bandolo non solo a una valanga di illusioni ed errori, iniquità e cinismi accumulati negli anni? Quella valanga è finita nei consigli d'amministrazione di poteri perlopiù sconosciuti che s'impinguano sulle nostre disgrazie.
Se un articolo di giornale ha prodotto, fra tanta risonanza, anche quel po' d'anima che risale, non compromessa con altro, da una metafora, questo, sì, fa onore anche alla politica, cioè alla sobria, lucida e risoluta voglia di ritrovare ogni occasione perduta, iniziando dalla lealtà delle relazioni, dalla chiarezza dei progetti, dall'assunzione e dal rispetto delle persone e delle responsabilità. Forse è augurale per tutti quel lontano bisogno di ritrovare, laica e accogliente, un'urgente cognizione del reale; e considerare che il pericolo non è più il pericolo, ma la mancanza di percezione del pericolo.
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Walter Veltroni, L'isola e le rose. Il romanzo di un'incredibile storia vera, Rizzoli, Milano, pagg. 322, € 17,50